William Elliott Whitmore vive lontano dai riflettori. Lontano dai giri dei folk singers tanto di moda tra gli alternativi che vestono Armani, lontano dal caos metropolitano che avvelena cervello e polmoni. Il suo inno alla campagna ha radici profonde che arrivano fino al delta del Mississippi, la Mesopotamia della musica contemporanea.
Trentatre' anni, bianco e con la voce da nero, vive da sempre nella fattoria dello zio che aiuta quotidianamente nel portare avanti tutte le attivita' che ne sostengono la vita. Un profilo perfetto per chi e' sempre a caccia di qualche outsider da trasformare in star, ma pare che al buon William non freghi proprio nulla della celebrita'. E menomale.
Ha finora prodotto quattro album, tutti cosi' minimali e scarni che vien da domandarsi se non siano stati disseppelliti da qualche archivio storico. Solo chitarra acustica, banjo, voce e qualche sparuto sostegno ritmico di sola grancassa. Quando suona dal vivo, a volte questa e' sostituita dai tacchi dei suoi stivali, battuti energicamente sul palco.
"Field Songs" non si sottrae all'equazione stilistica fin qui elaborata da Whitmore, che poi altro non e' che un country-blues tanto elementare quanto viscerale che trafigge davvero la carne. e' musica sincera, senza orpelli o fronzoli, solo melodie e parole che osannano la vita rurale ("Field Song"), il saper-far-da-se ("Don't Need It") o che sono veri canti funebri di una natura deturpata che pulsa ancora nei ricordi di chi l'ha vissuta ("Everything Gets Gone"). C'e' amarezza, come da tradizione blues, ma un ottimismo di fondo apre varchi tra le nubi.
Non e' la sua opera piu' ispirata, per quello vi rimandiamo ai bellissimi "Ashes To Dust" del 2005 e "Animals In The Dark" del 2009, ma se lo ignorate lo spirito di Robert Johnson vi punzecchiera' le chiappe nel sonno. Siete avvertiti.
[Marco Giarratana]
Canzoni significative: Don't Need It, Everything Gets Gone, Bury Your Burdens In The Ground, Not Feeling Any Pain, Field Song.
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