I Tool sono un gruppo atipico per il panorama musicale mondiale. Nell'era delle canzoni da 3 minuti, orecchiabili e facili, con video ruffiani e stereotipati la band di Adam Jones, Maynard Kennan, Danny Carey e Paul D'Amour fanno la figura della band anni 70. Canzoni lunghe (la media è di oltre i 5 minuti), intricate, piene di riferimenti e di strade da seguire e videoclip (a cura del chitarrista Adam Jones, già esperto di effetti speciali in film come Jurassic Park) senza senso, disturbanti in cui non appare mai la band. Al di là di questo, i Tool riescono ad ottenere un discreto successo. Merito forse di un periodo propizio per le band chitarristiche di non facile orecchiabilità (in tv poteva capitare di vedere un video dei Jesus Lizard senza che nessuno si scomponesse), ma merito anche della bellezza di Undertow, trascinato da un paio di singoli irresistibili ("Prison Sex" e "Sober"). La band, già nell'esordio sulla lunga distanza, perde i riferimenti e crea uno stile originale, francamente difficilmente ricreabile a tavolino, sommando le forti identità di ciascun membro del gruppo. Nei suoni della band possono esserci riferimenti al prog anni 70, all'hard rock, al metal, al thrash, i Led Zeppelin, i Black Sabbath, i Jane's Addiction, i Faith No More, i Metallica, i King Crimson, i Rush. Ma nessuno si è mai avvicinato alla loro sintesi. E ogni brano dei Tool suona solo alla Tool. Merito anche della perizia tecnica di ogni membro della band e all'inarrivabile voce di Maynard, unica nel saper miscelare tristezza e rabbia, malinconia e rancore.
Da segnalare la fondamentale presenza di Henry Rollins in "Bottom", forse l'apice di tutto il disco.
[Dale P.]
Canzoni significative: tutte.
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