Chi scrive ha fino ad oggi apprezzato la produzione degli Slipknot, accettando i numerosi pro e contro che ne hanno contraddistinto la proposta, la quale ha avuto nel suo primo momento (il folgorante debut omonimo) la spinta artistica migliore e più influente. Dopo "Iowa", disco che ha segnato un deciso avvicinamento all'universo death metal un pò a sorpresa, i nove mascherati di Des Moines hanno iniziato a mutare traiettoria, dirigendosi verso territori più easy-listening temuti da tempo. Complice anche l'esperienza del frontman Corey Taylor in seno ai suoi redivivi Stone Sour, la materia maneggiata dai nostri s'è trovata quindi sempre più legata alla necessità di continuare a mostrare i muscoli parallelamente all'alimentazione di una vena melodica sempre più insistente e tendente al pop. Viene così snaturata del tutto l'essenza di una band che, dolenti o nolenti, ha lasciato le sue tracce nella storia della musica pesante, effetti visivi a parte.
Divenuti oramai insipienti e senza midollo, gli Slipknot nel 2008 appaiono tragicamente a corto di cartucce. "All Hope Is Gone", disco che ne segna il ritorno in pista a quattro anni dal seppur buono "Vol.3 - The Subliminal Verses", ci consegna canzoni sgonfie, vani tentativi di suonare brutali ed efferati, controllando con le briglie ogni naturale pulsione primordiale. La lucida follia dell'esordio non è più nemmeno un vago e lontano ricordo, le strutture sghembe e le ritmiche sincopate e destabilizzantidi Joey Jordison non appartengono più a questi dintorni, agli Slipknot non è rimasto che fare un superfluo e moribondo verso ai Morbid Angel, per altro sterile riciclo di quanto accaduto già in "Iowa".
Non si rintracciano idee degne di nota e la produzione di Dave Fortman è troppo plasticosa. Se ne desume un quadretto tutt'altro che rassicurante che offre la muscolarità di songs che niente hanno per farsi ricordare ("Gematria (The Killing Name)", "This Cold Black") accanto ad un Taylor che si ostina ad infestare sistematicamente ogni brano con le sue sortite melodiche scippate letteralmente agli Stone Sour, tant' che ascoltando "Sulfur", "Dead Memories" (peggio di una qualsiasi b-sides delle "pietre acide"), "Vendetta", la stessa "Psychosocial" si riesce con difficoltà a trovare delle discriminanti tra i due gruppi. Non riusciamo a salvare praticamente nulla, non c'è un brano che risalti più degli altri, è un continuo annaspare nella mediocrità più palese: manca una "Wait & Bleed", una "Left Behind", una "Duality", manca il pezzo da novanta che ogni album dei nostri ha sempre contenuto. Drammatica la ballad "Snuff" (gli indecenti Saliva avrebbero avuto guizzi da campioni al loro posto), di cattivo gusto la tastiera in "Gehenna", ogni tentativo di uscire dalla formuletta risulta un buco nell'acqua. Come al solito puzzano di stereotipo fritto i continui ammiccamenti ad iconografie neotestamentarie capovolte (titoli come "Gehenna" e "Gematria (The Killing Name)" sono gli elementi più palesi), strizzate d'occhio al solito inferno da centro commerciale che non spaventa più nemmeno le nonnine che la domenica pomeriggio vanno a recitare il santo rosario. Sarebbe l'ora di finirla con certi giochetti da adolescenti mal cresciuti.
L'invadenza della vena pop-post-grunge sta erodendo all'inverosimile la band, incapace com'è di trovare strade consone per mantenersi a galla. Qualcosa nel precedente disco (soprattutto i due brani che aprivano e chiudevano l'opera) sarebbe potuto rivelarsi oggi un buon passo da compiere per intraprendere nuove vie, ma adagiarsi su un terreno sicuro è pratica comune a molti artisti, soprattutto se si è sazi del successo fin qui ottenuto e si ha più cura della confezione, penalizzando irrimediabilmente la sostanza. Brutto disco davvero.
[Marco Giarratana]
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