Immaginavo, anche senza aver letto le avvisaglie che affollavano il web gia' da maggio/giugno, uscite dalla bocca del diretto interessato Mikael Akerfeldt, che questo momento, prima o poi sarebbe arrivato: quelle succitate avvisaglie, erano insite nell'anima di questa straordinaria band da sempre, tutte quelle influenze prog d'antan che sono state da sempre ossatura essenziale e parte integrante del suono Opeth, sapevo che prima o poi sarebbero uscite fuori con tutta la loro forza spazzatrice, rimuovento ogni orpello estremo per lasciar spazio a cio' che il suo creatore ama di piu'.
Quel momento tanto profetizzato e' arrivato ed il risultato non puo' essere che, ancora una volta, sorprendente: non un cenno al passato (solo la copertina rimanda a quelle radici, con quel demone sotterraneo che la tinge di rosso fuoco - gia' in passato avevano dato modo di liberarsi da quella furia che li ha da sempre caratterizzati con il bellissimo "Damnation" ma quella era un'altra storia), tutto e' protratto ad un rinnovamento che guarda al passato - quell'era d'oro del prog inglese e anche italiano che fece cosi' tanti proseliti - ad un riavvolgimento della sfera temporale per prendere e forse omaggiare quel periodo tanto amato e odiato. Le composizioni si fanno mutevoli, leggiadre, quasi in punta di piedi, con guizzi di cinetica magniloquenza, con balzi d'umore tentacolari, avvinghianti spire di suono multiforme che cambia metamorfizzandosi in ogni passaggio in qualcosa di progressivo, ma nel vero senso della parola.
Tra King Crimson, Van Der Graaf Generator, Genesis, Pink Floyd e quant'altro vi viene in mente di quell'epoca d'oro, con Heritage vi si materializzera' d'innanzi un viaggio difficile seppur sublime nella sua stesura, non ancora a fuoco del tutto, ma che tiene ben saldo la personalita' che i nostri hanno da sempre dimostrato e portato avanti attraverso un modo di comporre e veicolare le emozioni tutto loro: magari vi si presentera' freddo ai primi ascolti, se rapportato con la precedente produzione del gruppo, ma se ascoltato svariate volte interiorizzando a dovere ogni parte si scoprira' un mondo che dall'iniziale titletrack alla conclusiva "The marrow of the earth" vi rapira' del tutto con passaggi cangianti e un'estensione musica ed un quadro emotivo ben piu' ampio di qualunque altro loro lavoro.
Non un capolavoro ancora, ma sono sicuro ne vedremo delle belle.
Coraggiosi, intensi, passatisti ma con i piedi ben saldi nel presente: solo loro sanno darci cio'!
[Lucio Leonardi]
Canzoni significative: The Devil's Orchard, I Fell The Dark, Famine, Folklore
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