Pur mantenendo integra una personalita' che va rafforzandosi e affinandosi col tempo, ogni nuova uscita degli Oceansize non e' mai fedele copia della precedente. Pur muovendosi dentro lo steccato dell'art-rock piu' progressivo, il five-piece di Manchester e' fortemente attratto da altri gerghi dello sconfinato linguaggio del rock: si scorge l'amore per l'emo-rock di Drive Like Jehu, Jesuit e Sunny Day Real Estate in diversi fraseggi di chitarra; si avverte una raffigurazione della malinconia che ha legami di parentela, seppur non di primo grado, coi Radiohead; si percepisce che gli insegnamenti dei Tool e di tutti coloro che sono passati prima di loro per quella strada sono stati ben appresi e rimodellati. Invero, quando parte "Part Cardiac" riemerge il sempre piacevole ricordo dei Soundgarden prima maniera, muscolari e possenti, epici e monolitici e cominciamo a sospettare che gli Oceansize abbiano dato un'improvvisa sterzata metallica al proprio sound, complice anche l'attacco a' la Mastodon di "Build As A Rocket Then" e "SuperImposer" che si muove sui medesimi binari degli Amplifier. Ma piu' ci si addentra nella tracklist, piu' ci si immerge nelle consuete dilatazioni atmosferiche degne del gruppo, e nelle quali si muove piu' a suo agio. I pezzi piu' lunghi, oltre otto minuti cadauno, sottolineano la propensione alla diluzione della potenza in lattiginosi flussi: "Oscar Acceptance Speech" forse e' un po' monocorde, ma sfocia in un autunnale viluppo d'archi che aleggiano come lenzuoli di seta; "Silent/Transparent" trabocca di chitarre post-rock persino nel lungo crescendo che strizza l'occhio agli Anathema di "Closer". Come degli Hawkwind a propulsione metallica, gli Oceansize accendono il reattore di "It's My Tail And I Chase It If I Want To" e spiccano il volo verso l'orbita terrestre, poi camminano in bilico tra il cielo terso e l'offuscamento improvviso di "SuperImposter".
Mike Vennart zigzaga nei suoi sentieri melodici risparmiandoci arie a presa rapida di cui ci stancheremmo al terzo ascolto, ma, e sara' proprio un difetto delle costruzioni delle composizioni in sé, non marchia mai i brani con indelebili lampi di genio. Neanche quando ci si dirige verso lidi un po' piu' intimisti, a tratti anche dream-pop come in "Ransoms", arriva il colpo da maestro, ed e' un peccato. Cosi' facendo, nessun episodio riesce ad assurgere al ruolo di motrice dell'intero album, il materiale e' alquanto uniforme in termini qualitativi (anche se "Pine" gira un po' a vuoto).
Se "Effloresce" e' stato l'eccellente esordio che solo poche band sono in grado di comporre, se "Everyone Into Position" assorbiva i liquidi del predecessore in una forma canzone pero' un po' immatura, se "Frames" riapriva la strada a sperimentazioni su interessanti forme e architetture, questo nuovo capitolo, nonostante la buona fattura complessiva, segna un momento di transizione per gli Oceansize. Vorranno dar maggiore spazio agli istinti piu' heavy che ogni tanto si affacciano, ma senza troppa convinzione, o stanno tentando di riconfigurare il proprio pensiero progressive ampliando lo spettro sonoro ad intuizioni non ancora messe a fuoco? Voi che dite?
[Marco Giarratana]
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