Il sottoscritto attendeva con ansia la nuova uscita di questo eccezionale progetto, che per chi ancora non lo sapesse è la naturale prosecuzione dei Godflesh (storico combo inglese ormai defunto, in una parola: seminali). Dopo la pubblicazione di un incredibile Ep come ‘Heart ache’ e di un full lenght omonimo l’anno scorso, entrambi acclamati da critica e pubblico, e al termine di una lunga tournee sui palchi di mezzo mondo (in compagnia di Isis e Pelican), la band ora ci propone 4 nuovi pezzi che solo in parte possono entusiasmare i sostenitori dei precedenti lavori, sebbene migliorino con ripetuti ascolti e ad altissimo volume. Fin dal primo ascolto ci si rende conto che siamo in presenza di piccoli, ma fondamentali cambi di direzione. Il sound è rimasto lo stesso, ovvero troviamo le consuete ritmiche industriali, le solite chitarrone ultradistorte (che molto devono a certo shoegaze), gli arpeggi sotto forma di loop, che sovrapponendosi creano atmosfere variegate e dissonanze, e la voce effettata di Broadrick a emergere sul magma sonoro. Ciò nonostante, il vero punto di forza dei dischi precedenti erano le melodie: tetre ma tiepide, scoraggiate ma altrettanto pregne di un senso di religiosità che potremmo definire mantrica. E stavolta i temi melodici appaiono più scontati, meno ispirati, e in generale influenzati da certe sonorità (sto per dire una parolaccia)… EMO. La solarità che a sprazzi illuminava quegli abissi che solo chi non crede più in niente può concepire, spesso si riduce a una rassicurante rivisitazione di Foo Fighters, Cure e Nine inch nails, e denota in più circostanze una leggera perdita di personalità. Inoltre l’appoccio è più pop\forma canzone che in passato, quasi come se si cercasse di rendere più accessibile il potentissimo wall of sound che contraddistingue il progetto sia in studio che sul palco. Mancano le progressioni, quasi tutto si svolge attorno ad un unico tema che in alcuni casi non trova una conseguenza vincente quando si tratta di aumentare il pathos o di cambiare registro. Comunque sia, anche se ‘Star’ suonerebbe bene nei college americani, anche se ‘Wolves’ è la brutta copia di ‘Friends are evil’ (davvero mal assemblate le ritmiche e le melodie nel finale) e anche se ‘Dead eyes’ poteva scriverla molto meglio un Reznor di 10 anni fa, la titletrack ‘Silver’ è una prova eccellente, vale da sola l’acquisto e risolleva decisamente le sorti di questa mezzora di Jesu, soprattutto grazie ad un riff centrale che stordisce nella sua intensità monolitica, dipingendo paesaggi gonfi di frustrazione esistenziale e di rancore. Forse il buon Justin dovrebbe ‘riposare’ un po’? Tre uscite in due anni (con tournee sfiancante) più svariati side project e collaborazioni hanno forse leso la sua creatività? Per il momento non sbilanciamoci troppo: ricordiamoci i due capolavori dell’anno scorso e guardiamo con ottimismo al futuro… in fondo certe cose le sa fare SOLO LUI. Cartellino giallo in attesa del nuovo album in lavorazione.
[Morgan]
Canzoni significative: Silver.
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