Gli Hum sono conosciuti in Italia dai fan più preparati dell'alternative rock anni 90, soprattutto per merito del singolo "Stars", contenuto nell'acclamato "You'd Prefer An Astronaut". Negli Stati Uniti sono un nome piuttosto "grosso" e sebbene si siano sciolti nel 2000 con la fine del "post-grunge" hanno continuato a ricevere offerte di reunion. Un po' come accade con i Failure, citati da decine di musicisti statunitensi e conosciuti da tre persone qui da noi.
Dopo 23 anni da "Downard Is Heavenward" tornano con un nuovo disco intitolato "Inlet" ed è una discreta sorpresa. La band, in effetti, ha sempre ben bilanciato la potenza delle chitarre (tra primo grunge e shoegaze) e il gusto per la melodia sbilenca ma efficace abbastanza da penetrare le classifiche alternative, però in questo disco ritorna con un sound ancora più compatto e coeso, meno trendy e meno intento a cercare il singolo giusto.
"Inlet" si potrebbe definire heavy-shoegaze, con chitarre al confine con il post-metal più etereo. I My Bloody Valentine sono ben citati in tutto il disco ma i riff hanno spesso un incedere sludge e il minutaggio è da band post-rock. E' quindi una bella sorpresa, un come back maturo, che usa la base di partenza che la band ha sviluppato negli anni 90 per migliorare il proprio suono e osare in nuovi territori. Se ci auguriamo che il pubblico degli Hum in tutti questi anni sia cresciuto e maturato i musicisti lo sono, e parecchio. E in modo sorprendente. "Inlet" è un perfetto disco grunge-sludge-shoegaze: pigro, potente, a tratti etereo, melodico ma non ruffiano. Complimenti.
[Dale P.]
Canzoni significative: Desert Rambler, The Summoning.
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