Strana la vita: passare da outsider a band presente in tutte le playlist della musica "che conta". Passare da band denigrata e vista con distanza a padrini di una scena.
Dylan Carlson, incredibilmente, più che ringraziare Kurt Cobain per la popolarità (che li ha esposti ad un pubblico mainstream incapace -o semplicemente senza voglia- di capire) deve ringraziare Stephen O'Malley per l'inaspettata rinascita.
Stephen con le sue band e la sua etichetta ha dato un senso alle intuizioni "Earthiane" rendendo fruibile una musica che nasce come sperimentale.
A quindici anni dagli esordi Dylan mette in piedi una vera e propria band con la batteria di Adrienne Davies, il basso di John Schuller, la lap steel di Dan Tyack e il trombone di Steve Moore. Ne viene fuori un disco alla ... alla... alla Neil Young di Zuma. Ma senza le canzoni. Lunghi feedback lancinanti, note sospese e tempi da codeina. Un disco che abbandona i droni in favore della creazione di un atmosfera da grandi spazi desertici. Quasi un trip psichedelico.
Il disco risulta per certi versi avvincente (soprattutto nei primi brani). Poi, inevitabilmente, sopraggiunge un filo di noia dato che il clima rimane costantemente sulla stessa temperatura. Ma "Hex" è comunque un bell'esempio di contaminazione fra drone, folk e psichedelia. Devo ammettere però che da un personaggio instabile come Carlson mi aspettavo qualcosa di ben più estremo.
[Dale P.]
Canzoni significative: Mirage, Land of Some Other Order.
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