Non ci sono eroi. Anzi, gli unici eroi rimasti sono loro: capaci di sfornare sempre e solo ottimi dischi e di segnare la strada al mondo hardcore con almeno un album irripetibile (Jane Doe). Credevamo di non doverci più aspettare il capolavoro e, invece, al settimo album rimangono ancora la più sconvolgente macchina da guerra sulla scena musicale estrema.
Se i comuni mortali postcorers si scervellano per capire a quanti bpm andrebbe messo il delay, totalmente annebbiati dai Mogwai da dimenticare la loro rozza provenienza, il quartetto di Boston continua su una propria strada fatta di rumore metallico, violenza, distruzione.
La band di Kurt Ballou rimane quindi una creatura a se stante, incapace di seguire i trend e di conseguenza anni luce avanti alla miriade di pseudo gruppetti che annebbiano le nostre orecchie quotidianamente.
Il precedente "You Fail Me" volava più basso rispetto a "Jane Doe". Scelta tattica dettata dal fatto che umanamente nessuno poteva replicare con tanto successo una formula/nonformula come quella contenuta in quel disco. Abbassato il fianco l'ascoltatore si ritrova quindi ad inserire nello stereo un disco che è incredibile dalla prima all'ultima nota.
Non siamo a livello di "Jane Doe", perchè nessun disco raggiungerà mai quello standard, ma "No Heroes" si insinua poco sotto.
L'inizio è un vero e proprio infarto. "Heartache" parte con un riff mammuth per poi sconvolgere con un attacco grind di spietata ferocia. Qui viene fuori l'importanza di avere un Ben Koller alle pelli: proprio mentre Kurt estrae suoni alieni dalla propria chitarra la struttura ritmica non cede di un colpo.
Dopo quasi due minuti attacca il furioso grind/hardcore di "Hellbound", sulla scia di produzioni violente anni 80. Ma è solo lo sclero di un minuto. "Sacrifice" annuncia l'attacco. Urla sconnesse e opprimenti usciranno dal vostro impianto mentre un instancabile Ben Koller non mollerà la presa per neanche un secondo.
Le orecchie sanguinano, forse è la fine. "Vengeance" è un altro assalto all'arma bianca dalla durata di 58 secondi. Un crescendo sonoro che porterà la vostra anima all'inferno. Sono passati 5 minuti dall'inizio dell'album e siamo già sommersi da una quantità di dolore oltre la soglia del sopportabile
"Weight Of The World" vuole forse farci rilassare? Uno stacco di chitarra libera non vuole farci respirare ma, in realtà, infastidisce i nervi per l'ennesimo attacco nucleare: "No Heroes". La title track è forse il primo brano dell'album con un senso compiuto e sullo standard Converge.
E' il turno della "stoner" "Plagues". Una chitarra metallica che suona come una fabbrica al lavoro. Ancora l'idea di stimolare i nervi per preparare l'attacco. "Plagues" è un autentico brano di hardcore psichedelico. Migliore di tanti brani hardcore con il delay e i suonini introspettivi. Questa è follia in musica.
"Grim Heart/Black Rose" è evidentemente e dichiaratamente l'apice dell'album. Un vortice di poesia accompagnata dalla voce di Jonah Jenkins dei Milligram. L'arpeggio distorto crea un brano dal sapore quasi grunge come se Melvins e Alice In Chains avessero jammato sotto acidi. Nella seconda parte del brano (dal sesto minuto in avanti) ascolterete la colonna sonora di un omicidio disperato, in cui ogni colpo di batteria ha la potenza di una coltellata.
Dopo questi nove minuti e mezzo il disco riprende la sua corsa contro il tempo, trascurando per ovvie ragioni l'effetto sorpresa per il definitivo attacco frontale. Attacco che prende il nome di "Trophy Scars" hardcore urbano rara intensità.
14 brani per 40 minuti di musica e nessun calo di tono. Anzi, la band non è mai suonata così immediata pur non rinunciando alla consueta dose di violenza.
Se non è il disco dell'anno poco ci manca.
[Dale P.]
Canzoni significative: Grim Heart/Black Rose, Plagues, Trophy Scars.
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