Ad un certo punto della tua vita incontri la disperazione, la tristezza, (capita a tutti, la ruota gira per ognuno di noi, e non ve la sto buttando, ma sappiamo tutti che e' cosi', anche se non la auguro nemmeno al mio peggior nemico), e ti chiedi che rumore-musica possa avere tale sentimento.
Poi ascolti gruppi come Khanate, Khlyst, Gnaw, Gnaw Their Tongue, ecc e capisci che il suono del trapasso stesso dalla vita alla morte e' stato creato, ma per quello dell'attimo prima? Quello del momento prima, cosi' pieno di tristezza e disperazione, e rassegnazione e anche rabbia? Beh, per quello ci pensano band come questi Altar Of Plagues.
Sono irlandesi, e sono un terzetto alla seconda prova in studio (il loro primo parto, quel "White Tomb", scombino' le menti di chi ci si avvicino' con cuore, mente e orecchie a quelle lande desolate), e propongono un black metal fuori dai canoni normalmente conosciuti (come sempre piu' spesso sta accadendo da molti anni a questa parte - contaminazione a iosa - non sempre vincente c'e' da dire), immergendolo in contesti ormai non troppo inusuali, come quello del post-metal alla Neurosis, il drone, l'ambient, il folk apocalittico, solo che qui, a differenza della maggior parte di chi si cimenta in tale genere, chiamato opportunamente post-black metal, la personalita' e l'originalità d'esecuzione sono alle stelle.
Quattro lunghe tracce (come anche nel succitato predecessore), la prima arriva quasi ai 20 minuti, "Neptune is dead", ed e' un tripudio di black metal d'atmosfere triturato da bordate post apocalittiche alla Neurosis, voce tirata allo spasimo, cadenze funeree, improvvisi squarci noise, elevazioni ancestrali: Disturbante!
Poi si passa alla successiva "Feather & Bone", e si capisce che non era tutto li', i riff si fanno piu' netti, le atmosfere si comprimono, il groove prende piede, farcito sempre da bordate folkeggianti, ma con una rabbia, soprattutto nell'uso della voce quasi hardcore, esente nel brano iniziale: Apocalittico!
Con la terza traccia, "When the sun down in the ocean", tutto muta sotto una coltre di fumo ansiogeno e trascendentale, le pareti di sangue si frantumano, una voce dall'oltre tomba canta la chiamata alla morte, una nenia sibilante, quasi stonata, per poi, pian piano, lasciar spazio ad una marcia verso la fine che ha pochi precedenti, la traccia piu' pacata e ambient del lotto, nonche' piu' breve, ma non per questo meno efficace, anzi: Meditativo-trascendentale per l'appunto!
La discesa e' quasi conclusa, spetta alla conclusiva "All life converges to some centre" chiudere il cerchio, punto di compressione di tutto cio' che i nostri hanno dato fin'ora; tutte le varie sfaccettature del lavoro sono chiamate ad unirsi in quello che e' probabilmente il miglior brano del lavoro, ma anche della carriera stessa del gruppo, fin quando nel finale, tutto si eleva ad una drammaticita' difficile da spiegare a parole, prima di schiantarsi e sfasciarsi in una coltre scura di ambient scandito da battiti di percussioni che chiudono il lavoro, come fosse veramente giunta la fine!
Mammal e' questo, e' un treno proiettato verso la fine, carico di disperazione e di tragico mal di vivere, ma una luce, dopo quell'ultima percussione finale, sembra scorgersi: come a dire che non tutto e' perduto, non tutto e' andato, e che la disperazione, e la tristezza servono per domani nettamente migliori.
Come dicevo, la ruota gira!
Mastodontici!
[Lucio Leonardi]
Canzoni significative: tutte.
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